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Spazi, a mia sorella Gabriella
Il grembo di Lei,
Mia prima dimora,
Angusto il suo spazio;
Lo cerco, lo scorgo
Celeste avamposto,
Di certo in
quel cosmo
Le trovo
il suo posto.
Una culla, una stanza ridente,
Abbastanza capiente,
Bambino vivace,
Verde distesa di grano,
Fantastico campo di guerre
lontane;
Una strada, intervallo tra amici.
Uno spiazzo, un cortile,
Una sfera di stracci,
Un largo asfaltato,
Ginocchia sbucciate.
Una classe di là della via,
Superfici e volumi,
Territori e confini,
Servi e padroni,
Vittorie e sconfitte,
La mia biografia.
Austera, lontana accademia,
Zona di attesa, obiettivi e traguardi,
Piazza di armi e piazza di onori;
Dio, Patria, e Famiglia!
Nessuna vergogna,
GridaLi forte!
Duna rovente,
Steppa ghiacciata,
Severo e silente
Mio
Padre acconsente
Oceani, vaste distese di mari,
Paesi lontani,
gente diversa,
Strapiombi su placidi fiumi,
Deserti montani,
Cime
innevate,
Picchi inviolati,
Maestosi
Luoghi dimenticati.
Città eterna, città amica,
Senza tempo
Gli
spazi di pietra;
Ritrovo quel grembo,
L'amata compagna,
La
figlia adorata.
Sentimenti frementi,
Amore, amicizia,
Universi struggenti.
Parole prigioni.
Placa, sorella, i patemi.
Li
sono nato,
Qui
tramontato;
Un
tratto di spazio disgiunge,
Magia:
La poesia ricongiunge.
Maurizio Cuscinà |
ORME ( 1963 - 2003 )
Ho cercato di ritrovare l' orma
d' un palpito, nato sotto la neve
del millenovecentosessantatrè
ma, un sussulto, non può lasciare
traccia
e, allora, ho raccolto i pensieri
come una massaia i poveri panni
stesi ad asciugare al sole d'agosto.
...ci accomunava un viso cèreo,
sfaldato in ampi crediti di sonno...
ci accomunavano quei pasti tristi
come consigli d' amministrazione...
oltre a una barba, rasata di fresco
e a uno "scelto", dall' urlo
animalesco.
Solitudine, compagna di viaggio,
solitudine d' anima colata
nell' uniforme, occhi spalancati
a penetrare la notte, a forare
oltre i vetri, una nebbia intorbata
dal fumo acre delle ciminiere,
una nebbia che tutto rende triste.
Un singulto che cade nel silenzio
dissolve la speranza e la dileggia :
tanto bastò al mio cuore d'
Ulisse...
in quella nebbia io mi incamminai
a contare i giorni del mio
destino...
la vita è sempre triste per chi
pensa.
Nicola
Zitelli |
IL
TEMPO
(a
mia sorella Gabriella)
Il
tempo è come il cielo.
Orizzonte di sogni reali,
Tramonto di tristi chimere,
Aurora di liete speranze.
Il
tempo é come l'onda
che fluttua lentamente
Nel sonno calma la fronda
all'alba incalza la mente.
Il
tempo passato or non è più.
Ti
volgi all'indietro. Chiedi dov'è.
Perchè immemore dici che fu?
Tutti i momenti vivono in me?
Il
tempo al presente?
E'
un regalo per me
Un
insieme d'istanti,
i
mille doni di Dio.
Il
tempo a venire ?
Sta per svanire vicino.
Mi
tormenta la morte,
L'eternità mi consola.
Maurizio
Cuscinà
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Dedicato, nella ricorrenza dell’8 marzo, alle donne del “
Ventesimo Corso”, comunque esse siano state o siano, madri,mogli,
compagne, figlie, sorelle; a coloro cioè che hanno colmato di
bellezza e reso stabile l’alterno gioco della vita di noi tutti
compagni di Corso.
Voci come musica
La voce femminile,
qualunque essa sia o comunque si proponga, è, di per sé,
dolcissima. Se poi è quella della donna amata rifluisce dentro
continuamente, senza posa, incancellabile, risuona come un’armonia
perenne, divenendo ampia nella memoria.
Ci sono voci
femminili che rivelano una profonda bontà d’animo; che possono
sciogliere l’inimicizia e l’estraneità, provocare oscillazioni della
sensibilità individuale e generare emozioni trasformando l’ascolto
in contemplazione.
Una voce femminile
può lasciar trasparire un’anima smarrita che brancola ed annaspa
ciecamente ai margini della vita, incapace, per poter sopravvivere,
di camuffare la paura e gli effluvi dell’angoscia.
Ci sono le voci
delle donne”buone”, di coloro cioè che nell’intimo della casa,
continuando ad essere indisturbate proprietà private, in quanto
conformate ai canoni maschili, dimostrano una virtù che potrebbe
sembrare la realizzazione delle loro aspirazioni ma non è altro che
un forte segnale d’impotenza da addebitarsi alla carenza di
esperienza e quindi di conoscenza.
Ci sono voci di
donne forti che non hanno sperperato gli anni ma hanno consumato il
tempo e profuso la vita nello sforzo di non fallire il proprio
compito e di non far smarrire la via a coloro che hanno amato; voci
che esauste, piegate dalla debolezza ma ancora in piedi, nella
solitudine hanno ascoltato solo se stesse, impenetrabili al torpore
e che, rinfocolate continuamente dalla speranza, hanno arricchito
gli spazi vuoti della vita altrui.
Ci sono voci di
donne che immobili accanto al letto sostengono con teneri accenti
chi a loro si aggrappa per afferrare ogni sguardo e ogni sospiro e
per continuare ad avere coscienza del tempo e la speranza di
un’esistenza che torni a ricomporsi.
Ci sono voci di
donne fortissime che hanno sostenuto gli sguardi della Storia
perseguendo come Antigone, una delle più grandi figure femminili
della letteratura di tutti i tempi, la via dell’imperativo morale in
aperto contrasto con i dettati della legge, ponendo un terribile ed
eterno interrogativo sulla liceità della scelta. La “Antigone”,
che il compositore Carl Orff mise in scena servendosi integralmente
del dramma omonimo di Sofocle, splendidamente tradotto dal poeta
tedesco Hoerderlin, espone, ricorrendo al Mito, la tragica vicenda
di una donna – Antigone, appunto- che cerca di dare degna
sepoltura al cadavere del fratello Polinice morto nel suo fallito
tentativo di attacco alla città di Tebe governata dal re Creonte. Il
Re, infatti, aveva decretato che il corpo di Polinice, suo nemico e
traditore, fosse lasciato a decomporsi, insepolto, preda di cani e
di avvoltoi e che, inoltre, fosse punito con la morte chiunque
avesse tentato di dare ad esso sepoltura. Antigone, sollecitata in
maniera fortissima dal suo amore fraterno, disobbedisce alla legge
del Re, copre di terra il corpo del fratello ma, scoperta, viene
condannata a morire. Nell’opera di Orff Antigone non canta affatto,
ma recita, parla continuamente con una voce sovrapposta ad
un’armonia basata unicamente “ sul ritmo quale elemento partecipe
in egual misura della natura intellettuale e sensoriale dell’uomo e
quale principio regolatore di tutti gli elementi dello spettacolo”
(Fassone). Una voce unica che dispiegando toni ora selvaggi e
ruggenti ora tenerissimi, conferisce ad Antigone il suo valore
tragico, la tristezza del tragico che, coniugato con la pena
profonda ed il profondo afflato religioso, afferma il principio
femminile dell’eroina realizzando la “grazia tragica” di cui parla
il filosofo Kierkegaard, e, nel contempo, la giustificazione morale
dell’essere vittima.
Ci sono voci
femminili che, all’interno della trascendente solitudine dei
chiostri , dispiegano la loro uguaglianza di vita comune, di
vestiario uniforme, di sottomissione ed obbedienza offerte in
sacrificio della loro singolarità e che con la semplice e nobile
preghiera sussurrata, anonima, mai frettolosa, abbracciano il divino
nell’espressione di un’intima gioia rivissuta continuamente nella
chiusura e nella perfezione del mondo monastico.
Ci sono voci
femminili che, sorrette dall’ebbrezza della libertà conquistata o da
riconquistare, urlano dentro e fuori di sé; fortissime e
straordinarie quelle delle antiche donne cartaginesi che sul porto,
mostrando i loro seni nudi ai guerrieri che salpavano per
combattere, erano capaci con le loro grida di scatenare ed elevare
al più alto grado l’orgoglio ed il coraggio di costoro celebrando la
dimensione eroica dell’evento con smisurata dignità.
Ci sono le voci che
cantano le ninne nanne: terrestri semplicità ma soavi e seducenti
aliti di vita, irraggiungibili nella loro delicata malia.
Ci sono infine voci
femminili che non parlano a nessuno ma solo a se stesse in soliloqui
chiusi ed inarcati in respiri che sembrano non avere nemmeno fame
d’aria, a mala pena dispersi nella brezza della sera, come velati
dalla consapevolezza di una vita insabbiata nell’impotenza. Armattoe,
un poeta del Ghana, così recita in una sua poesia: “ Ho
incontrato una vecchietta / che parlava a se stessa/ lungo una
strada solitaria. / Che ne sapete perché la gente parla da sola. /
Se la strada è lunga e mancano i compagni / uno parla a se stesso. /
Se come nugoli di frecce /arrivano i dolori / il viandante parlerà a
se stesso. / Così una vecchietta / ridendo tutto il tempo /
lungo una strada solitaria / può mormorare fra sé / per scacciare le
lacrime. / Donna, tu sei triste! / Ma succede anche a me “.
Questa la musica
della voce femminile.
Giuseppe
Campa |