Dedicato ai miei Compagni di Corso.
Giuseppe Campa
Un incredibile fondale per
Ecuba
Incredibile a dirsi e a vedersi! A volte, e
capita di rado, la messa in scena di uno spettacolo, specialmente se svolto
all’aperto, viene ad essere determinata oltre che dalla vivacità immaginativa e
dalla sensibilità artistica dello scenografo e del regista, anche da fattori
del tutto casuali, relativi all’ambiente naturale o altro, impossibili da
cogliere a priori o da prevedere sia da parte dello scenografo sia da parte del
regista. Proprio questa casualità contribuisce inaspettatamente a rendere a
volte completa o addirittura perfetta la scenografia. E’ capitato a me di
assistere poco tempo addietro ad un’opera teatrale e verificare quanto asserito.
In tale occasione lo spazio scenico era costituito dal portico semicircolare che
orna metà del perimetro della
magnifica
Piazza Maggiore di Mondaino, un borgo collinare nel riminese.
Veduta della Piazza Maggiore
di Mondaino
Veduta aerea di Mondaino con la Piazza sulla sinistra
In esso lo scenografo e regista teatrale Massimo Liconi aveva
inserito la rappresentazione di “Ecuba”,
un’opera teatrale basata su una
drammaturgia
che la scrittrice e poetessa riminese Rosita
Copioli aveva nel frattempo elaborato rivisitando l’omonima tragedia di
Euripide. Come musiche di scena venivano utilizzate le stesse che
Gian.Francesco.Malipiero aveva già composto
nel 1939 per lo stesso dramma. Nella bella piazza di Mondaino la scenografia esibiva
forme di un linguaggio flessibile ma nel contempo rigoroso nel suo dispiegarsi,
dal protagonismo simbolico di oggetti immobili sulla scena all’articolazione
figurativa dei personaggi. Inoltre, attraverso un sapiente uso delle luci, il
regista riusciva a coniugare
l’immobilità
architettonica con
il tempo dell’immaginario, del Mito. Il risultato a questo punto era già
felice. Ma non era sufficiente: allo spazio scenico mancava il fondale o,
meglio, un fondale adeguato che saldasse la lacerante figura di Ecuba al suo
destino ed esprimesse anche il movimento verticale della rappresentazione
tragica. Ed è qui che è intervenuto un elemento dell’ambiente naturale, del
tutto casuale
e quindi imprevedibile!
Quella sera, esattamente alle spalle delle meravigliose arcate neoclassiche
disposte in semicerchio, frontalmente alla platea, quindi visibilissimo, c’era
il nero cielo della notte, quello rivolto a Nord e che con l’Orsa Maggiore e le
altre stelle lentissimamente roteava in senso antiorario attorno alla
costellazione dell’Orsa Minore con la sua Stella Polare in bella vista. Quest’ultima
era lì, fissa, perfettamente verticale alla scena e inclinata sull’orizzonte,
come si sa, quel tanto che basta per assicurarci gli inverni e le estati.
L’Orsa Minore nel Mito greco viene detta anche la Scilla celeste o anche
Mera.
Il grande studioso inglese Robert Graves, rifacendosi all’Astronomia Poetica e ai
Miti(
Fabulae) dello scrittore latino Caio Giulio Igino e alla Epitome della
Biblioteca di Apollodoro, nel suo libro
I Miti Greci
(ed. Longanesi ) , riporta
che Mera fu il nome dato alla vecchia moglie di re Priamo, Ecuba, dopo che per
punizione fu dagli Dei trasformata in cagna. Difatti, Ecuba, per vendicare il
feroce assassinio di suoi due figli, Polidoro e Polissena, compiuto da un
nobile della Tracia di nome Polimnestore, aveva attirato costui con l’inganno
assieme ai suoi figli per un banchetto nella
sua dimora. Durante il lauto pranzo essa cavò gli occhi al padre e
trucidò i figli sventrandoli. Il re Agamennone
perdonò a Ecuba questo atto di spietato furore omicida per via della sua tarda
età e delle molte sventure subite con la caduta di Troia. I nobili traci però
avrebbero voluto vendicarsi e lapidare Ecuba; ma la vendicatrice venne
trasformata in una cagna, chiamata poi Mera. Essa cominciò da allora
a correre in tondo ululando fortissimo e incutendo
in tutti sgomento e terrore.
Così recita anche Dante: “
…Ecuba
trista, misera e cattiva,
poscia
che vide Polissena morta,
e del suo
Polidoro in su la riva
del mar
si fu la dolorosa accorta,
forsennata
latrò sì come cane”
(
Inferno,Canto XXX )
Un’altra
versione narra che alla caduta di Troia, la stessa Ecuba, assegnata in sorte a
Ulisse come schiava, lagnandosi continuamente, urlando e latrando come una
cagna, coprì costui e tutti gli altri Greci di invettive feroci e incessanti a
tal punto che per farla smettere fu necessario metterla a morte. Il suo spirito
prese la forma di quelle orrende cagne nere che sono al seguito della Dea degli
inferi Ecate, quindi balzò in mare e nuotò verso l’Ellesponto Il luogo dove fu
sepolto il corpo, individuato presso Gallipoli – l’attuale Gelibolu turco sullo
stretto dei Dardanelli -, venne chiamato “Cinossema”
ovvero “ La Tomba della Cagna”. Essa
era costituita da un altissimo ammasso di
pietre che, posto in riva al mare, serviva come punto di riferimento ai
marinai.
Gallipoli: in turco Gelipolu,
in greco Kallipolis
Ecuba, ovvero Mera la cagna, secondo quanto ci narra il Mito greco, fu posta da Giove, a perenne ricordo, nel firmamento celeste, divenendo la Costellazione dell’Orsa Minore la cui la Stella Polare orienta i naviganti, come, difatti, sulla terra faceva la Cinossema.
Pertanto, a realizzare nell’ampia piazza di Mondaino il
miglior fondale che potesse essere immaginato per lo spettacolo di “Ecuba”, ci aveva pensato il cielo
stellato. Per me, all’inizio della rappresentazione, guardare il cielo e, dopo
il preludio musicale, osservare la potente entrata in scena dell’attrice teatrale Lucilla Morlacchi che
nei panni di Ecuba gridava:” Nooo! Voglio restare morta fra i morti. Io tomba di pietra della cagna, segnale dei marinai.
Io sasso spento…”, per me, dicevo, ricordando le mie letture sul Mito greco,
coniugare Ecuba alla costellazione dell’Orsa Minore fu un tutt’uno.
Da un canto Rosita
Copioli rielaborando la “ Ecuba” di
Euripide e fissando la nuova drammaturgia, aveva tracciato con la sua
immaginazione la forma cosmica di una circolarità perenne del risorgere di
Ecuba da un’ulteriore metamorfosi. D’altro canto ritrovarsi l’Orsa Minore in
perpendicolo sulla scena costituiva un fatto strabiliante, incredibile e capace
di condizionare emozionalmente la percezione dello spettacolo. Lo spazio
scenico, inteso come luogo di identificazione con lo spazio cosmico, prendeva
posizione a fronte degli avvenimenti che vi si svolgevano. Il cielo era
diventato necessario per dare un ulteriore significato all’evento drammatico.
Perché le angoscianti parole di Ecuba “ …Voglio restare morta tra i morti! “ ? Perché dico “ …circolarità
perenne del risorgere di Ecuba..” ? Ci vengono in aiuto le chiare parole di
Rosita Copioli.
“….Ho immaginato, dunque,
- dice la Copioli - un ritorno di Ecuba dalla morte. Ecuba,
pietrificata, giace nel e come Tumulo
della cagna, la tomba di pietra nella
quale si è trasmutato il suo corpo, già trasformato in quello di cagna
rabbiosa, e precipitato nel mare dall’albero della nave che la conduceva alla
schiavitù. Dall’immobilità di una morte di pietra, la risveglia l’incubo che la
costringe a rivivere il culmine finale della sua tragedia ( la sua efferata vendetta su Polimnestore e i suoi figli.
n.d.r.) .
Ecuba è condannata a rivivere un dramma che era divenuto remoto, sepolto e
bloccato dalla morte: esso ritorna alla luce come se fosse emanato da lei
stessa, da ciò che è lei soltanto, Ecuba; e che si dipana dalla realtà
nuovamente, anche suo malgrado ( perché lei gli oppone resistenza). Non vuole
ridestarsi dal suo sonno di sasso, ma ne è forzata da una forza superiore.
Questa appunto proviene in parte da lei stessa, come se lei stessa fosse un
dèmone, che non può ormai morire del tutto; contemporaneamente appartiene ad
una potenza superiore a lei-dèmone. Tale duplice forza, che è unanime in Ecuba
nell’urgenza del risveglio, alle sue origini è tuttavia frutto del conflitto
violento tra la Necessità delle leggi che dominano il Cosmo e gli stessi Dei:
conflitto che si riflette sugli uomini. Ed è il riflesso del conflitto fra Caos
e Tempo, fra la violenza esercitata e la Vendetta ( Nemesi) : un riflesso che
ha trovato la sua incarnazione proprio in Ecuba più che in ogni altra donna, un
influsso cosmico che le impedisce di restare morta, e che la porta alla
ripetizione del suo dolore insopportabile.”
Nella recitazione la Morlacchi da quel primo “ Nooo!
“ sparato alla platea con
incredibile espressione di ferocia negli occhi spalancati, fino all’ultima,
dolorosa invocazione alla Nemesi (
“ … Tu mi hai generato
dagli abissi di tutti gli assassini invendicati. Perché io sono la tua figlia,
Nemesi. Io ti appartengo. Sono tua. E tu mi incateni, e mi scacci, come una
cagna, mentre io cerco di salire verso di te, verso il tuo cielo, Madre del
Tempo! Non sei la Madre di Elena; tu sei la mia Madre! Non respingermi Madre
mia…” ),
compiva una rievocazione del dramma completa e impagabile.
Lucilla Morlacchi recita Ecuba
I passi
solenni della grande attrice, le sue braccia che sembravano scagliare
maledizioni e le sue mani con le grandi dita distese, ora levate per
accompagnare i lamenti, ora incollate al seno, avevano un effetto sconvolgente,
evocavano connessioni fra il dolore, la vendetta, il macabro e il funerario, in
una dimensione di coscienza ancora più oscura. Nella rappresentazione gli
effetti erano esattamente calcolati. Ne emergeva un pathos che lievitava
addensandosi attorno ad alcune scene madri. La drammaturgia di Rosita Copioli è
stato il luogo germinale delle differenze con il dramma di Euripide. Rosita
Copioli così brava e coraggiosa nell’affrontare nella sua traduzione dal greco i
trimetri giambici, la libertà dei versi lirici e gli anapesti di lamento,
veniva affermando anzitutto una sua proposizione d’identità sostituendo al
fantasma di Polidoro che introduce la tragedia di Euripide, il fantasma di
Ecuba. Ma, parimenti, entrambi lanciano “ messaggi
di violenza e di orrore” (Albini). Mi torna alla mente, solo per operare un
confronto e traendo spunto dalle
cronache, la rappresentazione de “ Le
Troiane”, l’altro dramma in cui
Euripide scolpisce la tragica figura di Ecuba, andata in scena alle Orestiadi
di Gibellina nel
L’incedere lento e maestoso
delle Coreute
Come il
verificarsi di un evento magico, quindi, in quella serata si manifestava una
splendida quanto drammatica triade: a
perpendicolo sulla piazza l’Orsa Minore, sulla scena l’Ecuba reale impersonata
dalla Morlacchi e, infine, sotto il
portico il lamento tragico della sua anima: tre immagini della vecchia regina in continuo
rimando, poste in una contiguità spaziale segnalata dal loro contatto ideale ma
senza interferenze. Si assisteva anche alla
celebrazione di una immobilità architettonica e statuaria che si
confrontava con la dinamica del segno verbale e del segno sonoro, entrambi
autonomi ma in continua interagenza espressiva e inseriti vieppiù nell’accordo
cromatico del bianco dei lunghi drappeggi murali, del nero dei pepli delle
protagoniste e della vista brunita di un grande albero secco, essenziale scarnificazione
simbolica forse della vecchia regina, forse di un tempo ancestrale. La Copioli,
inoltre, nella sua rivisitazione del dramma
euripideo, veniva a definire un ulteriore rapporto, assolutamente nuovo
nel suo particolare simbolismo: la lacerante figura di Ecuba veniva posta in
fortissima relazione con il personaggio
della bella Elena.
“Ecuba – continua la Copioli - è la principale
antagonista di Elena, figura semidivina. Elena, difatti, rappresenta la
radiosità della luce, della bellezza e della giovinezza. Ecuba all’opposto è
l’abisso nero della disgrazia nella vecchiaia, la sua rabbia impotente che
sgorga dalla tenebra. Entrambe sono legate a Nemesi, dea della Giustizia
vendicatrice dei torti: Elena come figlia reale, nella sua carne divina, Ecuba
ne è figlia invece nello spirito e nel destino, perché sebbene frustrata, di
Nemesi incarna la Necessità primaria della Giustizia e quindi il riequilibrio
dell’ordine attraverso la punizione delle colpe…”. In altri termini, Elena commette la colpa che diviene
la causa della distruzione di Troia e di
tanti lutti, Ecuba è la vendetta, figlia di Nemesi, dea della Giustizia
vendicatrice dei torti. Ecuba non potrà mai morire perché ogni qualvolta ci sia
una colpa emerge ed irrompe la Giustizia che ripara il torto e riporta l’ordine!
Ne discende , altresì, che non esiste Ecuba senza che ci sia Elena. Ecuba è il
conflitto fra violenza e Nemesi, fra la violenza e la violenza della vendetta, “ …un influsso cosmico che le impedisce di restare
morta e che la porta alla ripetizione del suo dolore insopportabile…”, una ripetizione ciclica, direi, della violenza, non
dissimile da quella del cielo del Nord che continuava e continua
lentissimamente ma incessantemente a ruotare attorno all’Orsa Minore.
pippi campa
Il cielo dell’ emisfero Nord rotea verso Est,
attorno alla Stella Polare.
La
fotografia è stata ottenuta con un’esposizione dell’obiettivo di 24 ore
Nota: Le foto di Mondaino, di
Lucilla Morlacchi e delle Coreute sono tratte dall’inserto su internet “ Le
Notti Malatestiane”
La foto del cielo roteante è tratta
dal Volume “ Il Cielo” – Ed. De Agostini