Ai miei compagni di Corso, in particolare agli amici della Puglia, invio questo particolare valore estetico, scaturito da una realtà precisa della mia terra, delle mie origini. Dopo anni di assenza dal Salento, ritornando, mi sono impadronito del suo significato originario, della sua funzione d’uso, del suo simbolismo. E così vengo a ripetermi che non c’è solo l’opera d’arte fatta di un dialetto, di un idioma e della sua traduzione, ma,dietro di essa, c’è la vita, la grande e commovente sfera degli uomini e delle cose. Perché ognuno ami la propria terra e la propria etnia! Vi abbraccio Pippi Campa
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Dedicato ai figli di Paolo Stomeo: Chiara, Giuseppe, Luciana e Maria Antonietta UNA MAGNIFICA SIMBIOSI SALENTINA
Paolo Stomeo traduce “ Roda ce Kattia “ – Rose e spine - di Vito Domenico Palumbo
- a cura di Giuseppe Campa - |
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Il prof. Paolo Stomeo |
Vito
Domenico Palumbo |
Il prof. Paolo Stomeo, alcuni decenni or sono, riuscì a riunire in una splendida raccolta molta parte della produzione poetica in dialetto griko del grande studioso calimerese Vito Domenico Palumbo (1854-1918 ), insigne personaggio e grande animatore del risveglio culturale del Salento. Tale raccolta può considerarsi un risultato straordinario perseguito e raggiunto dal prof. Stomeo coniugando la compostezza di un metodo dall’indiscusso rigore filologico con l’amore o meglio con l’ostinata volontà di cogliere il segreto vitale di un antico e prezioso linguaggio popolare che da tempi lontanissimi, come brace sotto la cenere, covava ancora in alcuni luoghi del Salento.
Castrignano de’ Greci : “ Furneddhu” ( foto amatoriale)
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Martano: ex edificio Scuola Media (foto amatoriale) | Martano: Palazzo Pino ( foto amatoriale) | |||
Condusse, difatti, uno studio eccezionale sul patrimonio poetico di Vito Domenico Palumbo, operando generalmente su manoscritti autografi, trascrivendo le poesie foneticamente secondo la pronuncia greco-calimerese e, infine, traducendole dall’idioma greco salentino nella lingua italiana. Traspare chiara, ovviamente, la grandissima ammirazione che il prof. Stomeo riservava alla vita e all’opera del poeta calimerese così permeate di sorpresa passionale e di trepidazione esistenziale per i bagliori ambientali e culturali del Salento. Alla raccolta diede un titolo che aveva reperito fra le carte dello stesso Palumbo: “ Roda ce Kattia “ ovvero “ Rose e spine”. |
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Frontespizio del volume “Roda ce Kattia” | ||||
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Filippo de Pisis: “Rose” |
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Con la pubblicazione dell’opera, avvenuta nel 1971 a cura del prestigioso Centro di Studi Salentini di Lecce, lo studioso deve aver avuto non solo la consapevolezza di essere fra i primissimi se non il primo ad aver riunito in un solo volume tanta produzione poetica tradotta dal griko con il testo a fronte ma anche la coscienza esatta della funzione e dell’importanza dell’opera stessa sia in rapporto al pubblico cui si rivolgeva sia come valorizzazione di un idioma. Pertanto, se da un lato il prof. Stomeo rivendicava come giusto ed opportuno lo strumento linguistico, il griko, dall’altro ne affermava decisamente la validità in sé, dimostrandone la dignità fonico-lessicale, sintattica e strutturale in senso lato. Potrei aggiungere che questo affondo nella sensibilissima anima del poeta calimerese, sicuramente dettato da un’illusione romantica, fu alquanto coraggioso vuoi perché il griko tendeva ad esaurirsi vuoi perché la versione in italiano era finalizzata a ricercare un’equivalenza fra i due idiomi e operare quindi una convergenza fra due mondi espressivi.
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Giuseppe Campa:”Innamoramento” –inchiostro rosso su cartoncino- 50x70 |
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Per tradurre i versi della raccolta si rese necessario stabilire virtualmente con il poeta una specie di simbiosi che definirei spirituale ed estremamente raffinata: un doppio registro, una coniugabilità sorprendente fra il testo griko e la versione, manifestatasi da parte del traduttore come un’indipendenza creativa per nulla appiattita sul testo ma sempre alla ricerca di un nuovo valore poetico, diverso, cioè, ma altrettanto splendido ed efficace. Una sperimentazione linguistica? Direi, piuttosto, un non comune coinvolgimento personale, una dimostrazione di forza che con continuità diversificatrice e, aggiungerei, con una dinamica rigenerativa notevolissima ha disegnato una logica poetica diversa. Paolo Stomeo ordinò la raccolta in tre parti: “ Canti d’amore”, “ Canti di argomento vario”, “ Riduzioni e traduzioni da poesie italiane e straniere”. In questo contesto si tratterà solo dei Canti d’amore |
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Riporto di seguito alcune strofe dei canti quinto, secondo e nono. Sentiremo in esse la fatica del traduttore e lo sforzo di mantenere inalterato il grado di incandescente freschezza del verso. E come non avvertire altresì il ricorso ad un linguaggio o meglio ad una ricerca della parola che possa dar rilievo ai lineamenti interiori del sentire poetico? Si coglie, d’altro canto, l’esigenza di una maggiore libertà nei confronti della struttura codificata del brano poetico. Nascono così delle differenze non tanto nell’impianto strofico ma soprattutto nelle rime le quali nella traduzione, comparendo in numero limitatissimo, scompaiono quasi, lasciando il posto ad un ampio gioco di assonanze avide di italianità. Leggiamo
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Canto V |
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Ta kàglio ttraudàca-mu |
I miei migliori canti |
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Francesca” ( foto amatoriale di Ivan Fini ) |
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Ritengo che questa immagine, posta a commento della poesia su riportata, possa tradurre simbolicamente l’approdo del poeta al miraggio di una condizione che è nello stesso tempo segno e desiderio: una vertigine solare di natura mediterranea
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Curiosamente si viene a scoprire un “ poeta rivale” che abbandonando la rigida struttura metrica, dà luogo ad uno schema forse più facile ma ad una ricerca lirica sicuramente, a mio avviso, più ampia. Leggiamo ancora |
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Canto II |
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O poèta ce
o traùdi
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Il poeta e il canto | |||
_ Traùdi-mu; traudài tì fseri’ nna mu pi’? _ Ola possa eki o angora e tàlassa ce e gì.
Rota a’ sse ci’ pu teli’, fsero na su to po; piàkone a’ tto skulici ce ftase sto Tteò.
Ola a mistèria ‘u kosmu ta fsero: pukanè ftadzo, ce sti ffonì-mmu apantà tikanè,
‘ti ola in’ dikà-mmu; ria ime ‘os pramàto evò, c’’en eki addho ppi mena sto kkosmo ce ‘o Tteò.
Satti milò, su fseri’ cina pu leo na pi, ce tino mmeletìsi’ n’ ‘o kkami’ nna ta di?
N’ ‘o kkami’ nna ielasi satti pu su ielà, n’ ‘o kkami’ nna dammiàsi satti moroloà?
N’ ‘o ssiris epù teli’ ce panta sa ddiflò, n’ ‘u doci tti kardìa sti kkera m’ena llo?
Na kami’ ttuon endiàdzete Kardìa, tevni, fsikì; a ttaki’ tutta tria, ambrò, an de’, mi ssistì.
_ Enòisa: ‘en ià mena Il poeta Secundu pu torò; seru lì llì kkardìa addho den eko evò.
Ià tuo, traumi-mmu, t’adda Ta finnome ola ampì Ei’ ttinon addho kkàio Pi mena natapi’?
Emèna do-mmu roda Ia cinu pu’ gapò Ce kattia embelenàta Ia cinu pu misò |
_Canto mio, canto mio bello, che cosa sai tu dirmi? Tutte le cose che ha il cielo, il mare e la terra.
Domanda quello che tu vuoi, te lo so dire; comincia dal verme e arriva fino a Dio.
Tutti i misteri del mondo io li conosco: io arrivo dovunque, e alla mia voce risponde ogni cosa,
chè tutte le cose sono mie: re io sono delle cose, e non v’è altri che me nel mondo, e Dio.
Quando parlo, sai tu ripetere quelle cose che io dico, e a colui al quale tu leggi farle vedere?
farlo ridere quando tu ridi, farlo lacrimare quando tu piangi?
tirarlo dove tu vuoi e sempre come un cieco, tenere il suo cuore nella tua mano con una sola parola?
Per far questo occorre cuore, arte, anima; se hai queste tre cose, avanti, se no, non ti muovere.
_ Ho capito: non è per me come vedo; all’infuori di un po’ di cuore altro non ho.
Perciò, canto mio bello, le altre cose lasciamole tutte da parte Hai qualche altro migliore che le possa cantare?
A me, dammi rose per quelli che io amo, e spine avvelenate per quelli che odio |
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Torre dell’Orso (foto amatoriale)
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E ora il meraviglioso canto IX |
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Pirte |
E’ partita |
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Pu è’ tto rodo tt’òrio to miristò? t’astèri? cino pu lustron èkanne simòna kalocèri?
Pirte, chiasi to rodo-mmu, t’asteri spittarò, c’evò ftechiùddhin èmima e’ mmes to skotinò.
Otikanè skotìnase, tìpoti ‘en ei pleo chiari arte pu e mavri sòrta-mu tèlise na mu ppari!
Cevò ftechiuddhin èmina sekùndu ‘itti rrodèa pu tis eskòrpise o ànemo ta roda rotinà.
C’ ‘e mmeni addho pi kàttia stus klaru ttu iurnù, pu proi parèan ìus òria ta roda rotinò.
C’evò ola ci’tta akàttia, tacchio mes ti kkardìa ce me tripù cce o ièma-mmu pai rante e mmia cce mia
Ce rei ce pai to ièma-mmu ce òli-mu e dzoi; chiasi to rodo, o astèri-mmu, e agapi-mmu kalì
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Dov’è la rosa bella profumata? La stella? quella che dava luce d’inverno e d’estate?
E’ partita, è scomparsa la mia rosa, la stella sfavillante, ed io poverino! Sono rimasto in mezzo alle tenebre.
Tutto è diventato tenebra, nulla più ha grazia ora che la mia nera sorte ha voluto portarmela via!
Ed io poverino! Son rimasto come quella pianta di rosa cui il vento ha sparpagliato le rose in ogni parte.
E non rimane altro che spine nei suoi rami nudi, che prima tanto graziosamente ornavano le rose rosse.
Ed io tutte quelle spine le ho nel cuore, e mi trafiggono, e il mio sangue se ne va goccia a goccia.
E scorre e va il mio sangue e tutta la mia vita; è scomparsa la rosa, la mia stella, il mio amore bello.
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Spine di rosa ( dal volume” Ritratti di rose”- Mondadori) |
F.de Pisis:”Ramo nudo |
Spina di rosa ( dal volume” Ritratti di rose”- Mondadori) |
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Commovente! Potrebbe essere commentata con le note della Winterreise di Franz Schubert |
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da Fabrizio de Andrè ma la traduzione stessa è già musica! Appare chiaramente l’adeguazione al battito del verso in griko e contemporaneamente lo sforzo di non cancellare la vocazione poetica ma di coglierne la complessità sciogliendola nella leggerezza delle assonanze e nella fluidità verbale. D’altronde perché torcere il linguaggio in una nuova scansione metrica e nella rima? Era possibile, ma per Paolo Stomeo era più urgente cercare le parole che come “ freschi ciottoli “- usando una felice metafora del poeta inglese Spender – “ portassero con sé l’atmosfera della pioggia o il riverbero dei tramonti
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“I ciottoli del selciato” ( foto inedita di Valentina Ruvio)
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Riporto a tale proposito alcune riflessioni.
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Dante |
Leopardi |
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Anzitutto ciò che accomuna Vito Domenico Palumbo e Paolo Stomeo è la matrice
ambientale e culturale. Nati dalle stesse zolle salentine di terra rossa hanno
sviluppato un sentire comune e da questo han dato vita ad una flagranza del
contatto mentale annullando la distanza generazionale a favore di una
emozionante continuità del sentire poetico. |
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Difatti, invito gentilmente il lettore a porre lo sguardo alla traduzione, ad esempio, della sesta strofa del canto nono, laddove “ tripù “ ( da “trupanizo” , io foro,trivello, perforo, trapasso ) viene reso con “ trafiggere” e poi ancora “ pai rante e mmìa cce mìa “ ( letteralmente “ gocciolare a una a una “ ) viene reso con “ se ne va goccia a goccia”, illuminando il pulsare della sofferenza nella solitudine più assoluta.
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Pablo Picasso: “ Il vecchio chitarrista cieco”
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In altri canti non è difficile accertare la delicatezza del dolce stil novo che, sia in griko che nella traduzione, compare quasi un incantamento immerso in un elemento armonico. Ne è un esempio il canto diciannove “ Tosson ìsela”, uno dei più belli, nel quale figura il tema del “ messaggero d’amore” che il Palumbo affida al profumo di una rosa di maggio e alla melodia di un canto. Similmente avevano operato Guido Cavalcanti nella rima “ Perch’i’ no spero di tornar giammai, / ballatetta, in Toscana, / va’ tu, leggera e piana, / dritt’a la donna mia, che per sua cortesia / ti farà molto onore….”, e ancora, nonchè incredibilmente in una terra lontanissima, il più famoso dei poemi intitolati a un messaggero d’amore, il Meghadùta ( Il nuvolo messaggero ) del poeta indiano Kalidasa ( sec.IV-V), nel quale, con la più celebre e perfetta poesia lirica la funzione mediatrice è affidata ad un elemento naturale ovvero a una nuvola. |
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Leggiamo ora Vito Domenico Palumbo e Paolo Stomeo |
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Canto XIX |
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Tosson ìsela | Tanto vorrei | |||
Tosson ìsela, agàpi-mu, na ime e merodìa, tunù rodu ‘u maìu pu vo su ‘mbièo.
G.Campa “ Mariateresa” Isela na ime o nòima, na ime e mmelodìa tunù tu traudìu pu kkumpanèo;
satti pu su mirìdzese ec’èssu sti kkardìa na sombo, ec’ès to ièma ce sta mmialà;
ec’èssu sti ccofàli-ssu nambo san armonìa na chierestò ma sena pu meletà.
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Tanto vorrei, amore mio, essere il profumo di questa rosa di maggio che io ti mando
F.de Pisis “ Rosa” Vorrei essere il concetto, essere la melodia di questo canto che accompagno
quando tu ti odori, dentro l’anima entrarti, e nel sangue e nel cervello;
dentro la tua testa entrare come armonia per gioire con te che leggi
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Ecco come l’immagine del desiderio, così densa di significato, è quasi addossata alla parola, si identifica con essa. E’ uno splendore visivo, è profumo e poi suono |
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Nel canto seguente, “ Magàri “ , il XX, si può osservare e gustare da un lato una grande ricchezza poetica e dall’altro una traduzione che è principalmente delicato controllo della parola. Il “delicato” è da intendere “leggero”. Il poeta francese Paul Valery diceva:” Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma. “ Ce lo ricorda anche il calimerese Giuseppe Aprile nel suo “ Aremu rindineddha-mu “. E i versi di Palumbo sono come fantasmi leggeri, spesso sfuggenti. In questo vivere mobile e ricco si muove anche la poetica del traduttore, una poetica che obbedisce al concetto del fare, lontana da un’estetica assolutistica della traduzione e del “ ne varietur”! Leggiamo |
Canto XX | |
Magàri | Per quanto |
Magàri ‘os ammadìo-mmu panta panta n’ ‘os po:” Tappu ‘i ttorrìte cini, na min estrèfsete ce a’ fse dàmmia chiarà min gomistìte”,
magari tis kardìa-mmu panta panta n’ ‘is po:” ’Min ebbattèfsi’ iu ddinnatà: mu fènete ‘ti essu a’tto ppetto è’ nna mu tsumpèfsi”,
magàri tu pensièri-mu panta panta n’ ‘u po: “ Mi pensa e ccini: ‘ti cini è’ fselochiàriti Ce agàpin apù safti na mi mmini’
Evò ma to pensièri-mmu ma sena mera nifta panta steo: se torò ce e kardìa-mu mu petà i’ ‘i cchiarà ce tosso kkleo
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Per quanto ai miei occhi sempre sempre io dica:“Quando la vedete, non lampeggiate e non vi riempite di lacrime di gioia”,
per quanto al mio cuore sempre io dica:” Non battere così forte: mi sembra che tu voglia saltarmi dal petto”,
per quanto al mio pensiero sempre io dica:” Non pensare a lei, chè quella è senza grazia, “e da lei non aspettarti amore”,
io col mio pensiero sto sempre con te notte e giorno: ti vedo e il mio cuore mi vola per la gioia e tanto piango
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Nel canto, tutto è chiuso in un’atmosfera contemplativa, priva di drammaticità, di scosse, di mutamenti e così anche nella versione viene conservata quell’armonia e quella diffusa dolcezza che sembrano rinnovare la convenzione amorosa del Trecento. Quale piacere intenso della parola e quale fluire melodioso dei versi: “ Magàri….magàri….magàri “ ovvero “ Per quanto ai miei occhi….per quanto al mio cuore….per quanto ai miei pensieri “. E’ un incedere dantesco, d’accordo! Ma è bellissimo! |
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Giuseppe Campa: “ Il sogno” – inchiostro rosso su cartoncino-70x100- | |
Tutte le poesie facenti parte dei “ Canti d’amore” hanno impresso, più o meno manifestamente, il motivo dell’eros. Il canto XXXIII , “ Traùdi ‘os traudìo” ovvero “ Il Cantico dei Cantici”, segna forse il punto di maggiore intensità passionale e sensuale. Gonfio di segrete parole, esso discioglie in meraviglia l’irresistibile incanto erotico di un’intimità . Il Palumbo sa bene come l’arte del verso debba organizzarsi per affermare le vibrazioni dell’eros. Egli filtra il sogno di un amore da possedere, insegue e si appoggia all’idea neoplatonica di bellezza onde poter liberare e manifestare un’intensa sensualità. Il suo amore tende ad essere quasi un archetipo da contemplare e, da grande uomo di cultura, in questo slancio sembrerebbe ricongiungersi al pensiero di Marsilio Ficino ed alla “Primavera” del Botticelli in quanto tale quadro rappresenterebbe “ il processo di trasformazione della forza primordiale della passione amorosa in contemplazione intellettuale” ( Rizzardi ). Ma ecco che l’effusione idealizzante viene a urtare contro il gelido cuore della donna amata |
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Sandro Botticelli: “La primavera” (particolare)
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Ma è interessantissimo notare soprattutto come in questo componimento Vito
Domenico Palumbo riprenda e ricalchi le intense suggestioni della raccolta
di poesie “ Gli Amoretti “ del poeta inglese Edmund Spenser, vissuto nella
seconda metà del ‘500. Assistiamo, pertanto, ad un parallelismo
incredibile fra il Sonetto 64 e, ancor di più, fra i Sonetti 76 e 77 degli
Amoretti e il nostro “ Traùdi ‘os traudìo”. In esso il Palumbo, dando
prova del rispetto del suo bisogno espressivo, sprigiona una vera voluttà
della parola rendendola capace di generare immagini di grande e silenziosa
intimità segnando la visione della donna amata nella sua perfezione di
forme fisiche, nella sua sostanza terrena. |
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Canto XXXIII |
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Traùdi ‘os traùdio | Cantico dei cantici |
Simmeri te’ nna plefso to traùdi-mmu m’ ‘a lòia tu Traùdi ‘os Traudìo: Esu ise rodo, krinos, ise tortura, ise o nnerò pu ìsela na pio.
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Oggi voglio intrecciare il mio canto con le parole del Cantico dei Cantici: Tu sei rosa, giglio, sei tortora, sei l’acqua che vorrei bere.
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Giuseppe Campa: “ Tu sei rosa” –inchiostro rosso su cartoncino- 57x75- |
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T’ammàddia-su ‘a lustrànta ine diu ‘stèria fse cina ta pleon òria spittarà, pus tin ìmisi nnifta rindinìdzune tappu ‘en ei fengo ce ola i’ skotinà.
C’egguénni mia glicada apù ‘s t’ammàddia ta maga, ce mu ‘mbenni sti kkardìa glicèa glicèa sekùndu pu a’ tt’astèria petti panu stu ffiùrus e drosìa. O frontili-ssu è tturri ce e garzèddhe-su emmiadzu’ mma diu mila rotino, ce ta chili-su òria me ‘mbriacèune ma krasì pu ‘i ccoffali su votà
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I tuoi occhi luminosi sono due stelle, di quelle più belle, sfavillanti, che a mezzanotte scintillano, quando non c’è luna e tutto è oscurità
Ed esce una dolcezza dai tuoi occhi ammaliatori, e mi penetra nel cuore dolcissimamente come dalle stelle cade sui fiori la rugiada. La tua fronte è una torre e le tue guancine somigliano a due mele rosse, e le tue belle labbra m’inebriano come vino che ti fa girare la testa.
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Giuseppe Campa: “ La vida es sueno” –inchiostro rosso su cartoncino -57x75- |
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Ta milaca tu pèttu-su aspra-mmiadzune diu rifaca pu pedzu’ sto chiortàri; tappu ta kanonò, òria-mu, channome, ce, an dè ppo alìssia, o diàvalo ‘a mme pari.
Satti pu canonò ta diu podàca-su ta limbastréna, vo en vrisko ma ti na ta mmiàso, ce ‘itta diu chierùddia-su mu fènutte diu krini aspri nifti.
Ce satti pu pratis, òria-mu, fènese san enan iglio motti pu ste gguenni ise oli òria ce… Ma t’addho pu ìsela na po ‘c’es to traùdi-mu ‘en ambènni
iatì vo ‘en ime, o Salamone, agàpi-mu, ola possa lei cino na su po; c’esù ise sa tturri pu de’ ssiete magàri ti vo leo ce traudò.
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Le bianche mele del tuo petto somigliano a due capretti che scherzano sull’erba; quando le guardo, bella mia, mi perdo, e, se non dico il vero, il diavolo mi porti.
Quando guardo i tuoi piedini di alabastro, io non trovo con che cosa paragonarli, e quelle tue manine mi sembrano due gigli bianchi aperti.
E quando cammini, bella, mi sembri come un sole quando sta per sorgere. Sei tutta bella e…Ma l’altro che vorrei non entra nel mio canto,
perché io non sono Salomone, amor mio, per quanto io dica e canti. per dirti tutto ciò che dice lui; e tu sei come una torre che non si muove
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Appendice |
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Due momenti della cerimonia per la posa della lapide nella casa di Vito Domenico Palumbo | |
Il prof. Stomeo in primo piano, secondo da sinistra (foto amatoriale)
Il prof. Stomeo, primo da sinistra. Sulla parete il ritratto di Vito Domenico Palumbo da giovane(foto amatoriale) |
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Calimera:La casa di Vito Domenico Palumbo ( foto amatoriali) |
La lapide sul frontone della casa |
Riporto di seguito le
frasi finali della conferenza tenuta dal prof. Paolo Stomeo il 22 marzo
1958 nella sala dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene. In quest’umile casa accanto alla sua mamma e ai suoi libri soli e grandi amori della sua povera esistenza solitaria visse dal 22 aprile 1854 al 2 marzo 1918 VITO DOMENICO PALUMBO letterato ellenista poeta animatore del risveglio culturale greco - salentino
Atene 22 marzo 1958 prof. Paolo Stomeo
Diploma col quale S.M. il Re Giorgio I di Grecia, insigniva il 4 settembre 1908, Vito Domenico Palumbo della Croce d’argento dei cavalieri del Reale Ordine del Salvatore. |
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La madre di Vito Domenico Palumbo |
L’interno della casa di Vito Domenico Palumbo ( da quadri di Marco Palumbo ) |
Busto in bronzo di Vito Domenico Palumbo posto nei Giardini pubblici di Calmiera (foto amatoriale) |
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Riporto di seguito un brano della Conferenza di Vito Domenico Palumbo, tenuta ad Atene nel 1896 sulle colonie greche dell’Italia meridionale, riportato dall’interessante e bellissimo volume “ Vito Domenico Palumbo e la Grecìa Salentina” di Paolo Stomeo, in un’edizione realizzata dal Comune di Calimera nel 1986
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Traduzione
“…Certamente nella poesia popolare
greco- salentina non si trova il forte pathos, che si osserva nella poesia
popolare della Grecia, e che costituisce il suo carattere principale e le
dà il primato fra tutte le eccellenti poesie popolari. Ma ciò non è cosa
da stupire. Ogni pianta, trasportata fuori dal patrio suolo, perde qualche
cosa della sua essenza e del suo carattere ed acquista in cambio un’altra
proprietà conforme al nuovo clima. Così anche la nostra poesia, se ha
perduto la forza della passione greca, ha tuttavia acquistato parte della
tenerezza, della grazia e della freschezza, che caratterizzano il “ dolce
stil nuovo”, come fu chiamato. …”
(trad. di Paolo Stomeo) |